Ricette tradizionali con tecniche di alta cucina. Ambiente curato, ma non ingessato. Porzioni vere. Prezzi abbordabili. Nessuna ricerca di blasoni, ma solo della felicità degli ospiti. Inizia un nuovo stile di cucina. E loro lo rappresentano al meglio.
Due luoghi, due chef, simili nell’essere innovatori, radicati al passato e pionieri di una nuova cucina ancora all’inizio tutta da definire.
In un momento di confusione culinaria, dove l’alta cucina si identifica per lo più con accostamenti azzardati e stridenti, che possono stupire il neofita ma spesso “non funzionano” al palato (leggi “non sono buoni”) loro stanno creando qualcosa di nuovo. Antico ma nuovo.
E, mentre loro lavorano, sta al giornalismo vedere il futuro per trarre una categorizzazione dell’esperienza.
“I ragazzi arrivano in cucina e sanno fare le sferificazioni, ma quando chiedo di farmi vedere come si fa un minestrone si mettono a piangere, non sanno da che parte iniziare”.
Basterebbe questa dichiarazione di Giuseppe Rambaldi per far riaccendere la discussione oggi sulla cucina e sulla ristorazione in generale.
Non sono temi vecchi, sono temi attuali più che mai.
Le basi, le basi, e ancora le basi. I fondi, i brodi, il taglio delle carni, la stagionalità delle verdure.
Lo diceva il Maestro Marchesi, che sia Lopriore che Rambaldi conoscevano bene. Ma che ne è dei giovani?
I grandi chef oggi si impongono come linea di continuità con il passato e le sue tradizioni, a difesa delle ricette, anche le più semplici, di cui presto si sarà persa la memoria.
“Se non consoci le basi della cucina, come fare un fondo o un brodo, dove poggia la tua creatività? Sul nulla”.
A parlare è Giuseppe Rambaldi, classe 1981, che dopo 20 anni con Davide Scabin al Combal.Zero e due anni di riposo creativo – l’otium pieno di idee degli antichi, così necessario per far germinare le idee – ha aperto il suo Cucina Rambaldi a Villardora in provincia di Torino.
Penso che oggi in Italia ci siano due luoghi in Italia dove si sta creando un fermento di una nuova grande cucina, che non ha ancora un nome definito, che non ha blasoni, che è una sorta di “retroavanguardia” – una cucina Neoretrò che poggia sulle basi culturali e culinarie del passato e le ripropone in modo contemporaneo nell’oggi. Questi duo luoghi focali sono Appiano Gentile e Villardora.
Non sono ristoranti né bistrot né trattorie, né “smart casual”, sono luoghi del ben mangiare. Sono luoghi curati, ma senza eccessi di “pettinata” eleganza.
Se dobbiamo trovare una linea guida comune possiamo dire che usano i buoni prodotti del territorio, ma non sono fanatici del chilometro zero, spingono sulle tecniche (basti pensare all’affumicatore-artistico da tavolo di Lopriore) ma senza prevaricare l’ingrediente e i sapori rimangono buoni golosi e concreti, non hanno fronzoli di estetica all’interno del piatto ma si concentrano su migliaia di ciotole e ciotoline ricche di pietanze complementari l’ospite può dosare da sé (prova concreta, non da poco, di rispetto “passo indietro” dello chef rispetto al gusto personale del commensale”).
Lopriore lo fa, ad esempio, con la sua pizza fritta del giovedì, circondata da decine di condimenti da aggiungere, Rambaldi lo fa con le sue Acciughe al verde, un gioco da comporre al tavolo tra bagnet verde, uova sode e patate lesse del territorio.
Rispetto dell’ospite al centro della tavola, ma un ospite ben guidato, perché – bisogna dirlo e come è giusto che sia – dietro alla composizione del piatto resta come deus ex machina lo chef, che ha già studiato alla perfezioni gli abbinamenti, quindi l’errore del cliente è quasi impossibile.
Su queste tavole il cliente gioca e si diverte, ma dietro alle sue spalle, come un angelo custode, c’è sempre il pensiero dello chef.
Sia Rambaldi che Lopriore, pur conoscendola bene, si allontanano dalla nouvelle cuisine cucina francese che già tutto dosa e prepara nel piatto e dove la degustazione diventa “sacrale” nell’ordine e belle quantità volute dallo chef.
Quella di Rambaldi e Lopriore è una nuova cucina italiana che ritrova la sua gioia e la sua autoironia, che indulge alla nostra voglia di perdere i sensi – ammettiamolo – in un godurioso pranzo di Babette.
Ogni scambio di ciotola, ogni cucchiaiata dalla zuppiera diventa occasione di confronto con i nostri compagni di tavolo e diventiamo, con vero spirito italiano, tutti “allenatori” di squadre di calcio.
“Hai messo troppa cipolla caramellata sulla pizza fritta, prova il mio abbinamento che ha più burrata. Quanta salsa di acciughe, prova la mia versione più delicata”
E via di confronti e assaggi.
Stufi di rincorrere blasoni e stelle questi chef della cucina Neoretrò, ritrovano una fase della vita – anche personale – dove la sicurezza in se stessi fa sì che non abbiano bisogno di cercare il riconoscimento da parte degli altri, ma si immergono finalmente in ciò che amano fare.
E questo approccio, attenzione, non ha niente di casalingo, ma unisce sapienza dei gesti con un “fare rilassato” di chi non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Chi la chiama “cucina della nonna”, sbaglia.
“Se riesci a riproporre oggi un piatto del passato con gli stessi ingredienti della tradizione, ma in modo nuovo, hai vinto”.
Messaggio chiaro quello di Rambaldi, non servono aggiunte strane, non serve mettere la polvere i liquirizia, di olive le spume e le arie. Se una cosa è fatta bene, la tradizione è un punto di arrivo. Lo chef esprime fin da subito un sincero amore e una passione immensa per il territorio della Val di Susa “così ricco di potenzialità inespresse” di cui sicuramente si saprà fare portavoce con il suo ristorante aperto da soli 5 mesi. Stesso sentimento quello di Paolo Lopriore per il suo lago di Como e i territori circostanti.
Ciò che caratterizza questo tipo di nuova cucina Neoretrò è una grandissima tecnica e una certa dose di creatività che però non viene urlata. È una cucina che non è succube del “famolo strano”, con l’auto che viaggi a 220 in autostrada, e un risultato che diventa, al palato, più spiacevole che altro.
E veniamo all’aspetto estetico. “È un valore aggiunto, un qualcosa in più ben venga, ma non può prevaricare o diventare l’essenza del piatto. Da Cucina Rambaldi, durante servizio, corriamo per due ore, è tutto espresso. Il cappelletto è un cappelletto: se l’acqua del brodo è troppo salata o il ragù non è fatto bene, il piatto non sarà buono. Punto. C’è poco da fare. Non abbiamo paraventi dietro cui ripararci”.
L’estetica da Rambaldi così come quella di Lopriore, “esce dal piatto” – dove resta soprattutto il buono – per trasferirsi in zuppiere dal sapore antico, piatti dal bordo dorato, quelli del servizio buono che la nonna tirava fuori solo nelle grandi occasioni e che oggi abbiamo la fortuna di trovarci in tavola ogni giorno. Da Lopriore è l’affumicatore da tavolo dell’amico artista Andrea Salvetti (purtroppo venuto a mancare”) e la grazia di un servizio di porcellana tutto bianco e senza decori.
Personalità spiccata quella degli chef, che vive di luce propria. Rambaldi, ad esempio, esprime il suo “tocco di follia” non nelle preparazioni, obbligandoci ad abbinamenti astrusi e sull’orlo del fastidio, ma nell’ambientazione “esterna” del locale.
Un esempio? Da Rambaldi la musica è swing nella sala da pranzo e Anni Ottanta “a manetta” (come dice lui) nel bagno, che deve essere una zona di stacco. Sono le piccole follie che ci piace perdonare ai cuochi e che anzi, rendono l’esperienza ancora più divertente. Per Lopriore, sono gli Asado improvvisati nel cortile, su braceri “volanti” dove il fuoco è protagonista.
“Colpi di testa” che fanno divertire e che danno un tocco “estroso” in più all’esperienza, ma che non minano la sostanza dei piatti e del menu.
Ma vediamo la proposta del menu della Cucina Neoretrò di Beppe Rambaldi. In piena coerenza troviamo le Acciughe al verde, servite in purezza, affiancate da ciotolina dalle quali l’ospite può dosare patate lesse di montagna locali, bagnet verde e burro. Unica via di fuga dalla tradizione, la panna acida di scuola francese (che comunque è qui vicina) che, però, si sposa bene con la sapidità della acciughe.
Si continua con le cervella, che hanno bisogno di maestria e di tecnica, così come – inconsapevolemnte e pet la forza dell’esperienza – riuscivano a fare le nostre nonne. Bel probelma le cervella: se le cuoci troppo diventano gommose, se le cuoci poco, sembrano “crude” e non piacciono.
Rambaldi ti fa vedere che ci sa fare con le cervella, le cuoce in purezza in padella con il burro, la salvia e il rosmarino e le serve con una cipolla carammellata cotta a lungo in forno, svotata e “ricomposta” con il suo stesso ripieno saltato in padella con l’aceto balsamico.
Arriva poi un budino di verdure, che “comprime” una bagnacauda, sovrastato da verdure cotte e crude (bel gioco di consistenze di sedano, peperoni, carote, radicchio e zucchine) e accompagnato da una salsa alle acciughe che l’ospite dosa da sé.
Altro elemento inconfondibile degli chef della Cucina Neoretrò, è che non sono fanatici del chilometro zero. All’80% gli ingredienti del menu sono locali, ma c’è quel 20% che spazia in tutta Italia e all’estero, che si tratti di ingredienti, tecniche di cottura o un’ispirazione.
Lo dimostra il Cannolo siciliano, che Rambaldi porta nel cuore del Piemonte, ma che interpreta – nella cialda fatta a regola d’arte – con una ricotta di capra di un piccolo produttore locale della Val di Susa.
I grandi classici sono protagonisti dall’antipasto al dolce, come uno dei cult della pasticceria italiana, che non si trova quasi più da nessuna parte, la Zuppa inglese, con doppio strato di crema pasticcera – in questo caso densa e compatta – e uno di cioccolato e l’alchermes che colora di rosso vivo il dolce.
Aspetto da non trascurare, i conti sono onesti. Ci puoi andare con la famiglia o con la fidanzata/o, con la certezza di pagare il giusto per ciò che si avrà nel piatto e per l’esperienza. Eppure, in cucina, proprio dietro di voi, c’è uno chef che ha calcato i palcoscenici internazionali, ha lavorato con i più grandi, eppure è lì ogni sera – a testa bassa e senza boria – per offrirti il meglio. Questo è un altro aspetto degli chef Neoretrò: ormai poco sensibili al jet set, sono chef che non comandano ma cucinano. Riescono ad uscire solo a fine serata, quando hanno esaurito tutte le comande, perché per la durata del servizio hanno “spadellato” sul serio. Come dice Rambaldi: Oggi ci si stupisce che il cuoco sia in cucina a cucinare. Ci rendiamo conto del punto a cui siamo arrivati? Sono in cucina a cucinare perché è il mio mestiere”.
Insomma, la speranza è che luoghi così si moltiplichino e moltiplichino, ancora, facendo massa critica e diventando un nuovo movimento di gusti concreti e vera etica del cibo e del lavoro di cui abbiamo molto bisogno in questo tempo di poche certezze e molte confusioni culinarie.
“L’etica oggi si vive tutti i giorni. Per me vuol dire usare prodotti locali, ma non solo, farmi portavoce di ricette antiche per tramandarle alle future generazioni. La bellezza del piatto resta in secondo piano rispetto all’utilizzo totale dell’ingrediente, che è prezioso e di cui non butto quasi niente. Oggi non è possibile presentare un cubetto perfetto, buttando tutto il resto, nemmeno se si tratta di un pezzo di carota o di una semplice patata. E poi, l’etica, è far pagare il giusto prezzo al cliente, sono passati i tempi dei conti da capogiro. E, non da ultimo, oggi l’etica è pagare gli stipendi e guadagnare qualche soldo da investire per andare avanti facendo sempre meglio”.
Che dire? Evviva la cucina Neoretrò.
© Annalisa Cavaleri
Credit copertina: per Lopriore ph. Lido Vannucchi – per Rambaldi ph. Annalisa Cavaleri